È il 9 ottobre 1963, ore 22:39. In un istante, una frana colossale — 270 milioni di metri cubi di terra e roccia — precipita dal Monte Toc e travolge il bacino della diga del Vajont. Una diga imponente, una delle più alte al mondo, ora teatro di uno dei disastri più tragici nella storia d’Italia. L’onda sollevata dalla frana scavalca la diga, devastando il fondovalle e cancellando cinque paesi, tra cui Longarone. Il bilancio umano è agghiacciante: 1.917 vittime.
Ma questo non è solo un disastro naturale. È un crimine che affonda le radici nella negligenza, nella cupidigia e nell’indifferenza delle autorità e delle aziende coinvolte. Le voci critiche, come quella di Tina Merlin, furono derise e ignorate, nonostante avessero previsto l’inevitabilità della catastrofe. La sua denuncia, tre anni prima del disastro, fu ignorata come un delirio allarmista: la sua premonizione si avverò in modo devastante.
Nei giorni precedenti la frana, i segnali erano già allarmanti. Movimenti della montagna, abeti piegati verso valle, acqua abbassata dalla Sade (l’azienda proprietaria della diga prima della nazionalizzazione), che favoriva lo scivolamento del monte. Eppure, nessuno fece nulla. Poi, alle 22:39, la corrente elettrica saltò. Le persone guardavano una partita di calcio in tv quando il vento iniziò a soffiare violento, come se fosse l’avvertimento dell’imminente apocalisse.
La farsa della “fatalità” e il processo alle coscienze
E ora, a distanza di 61 anni, ci si chiede: davvero fu tutto una fatalità? Il Vajont è la dimostrazione lampante di come l’incuria e l’interesse economico possano distruggere vite umane, sotto lo sguardo passivo delle istituzioni. Non a caso, gli inviati che documentarono la tragedia non parlavano di “vittime” nel senso passivo del termine, ma di persone “sepolte morte”, come scriveva Alberto Cavallari sul Corriere della Sera. Uomini, donne, bambini: falciati dalla brutalità di un’onda d’acqua, massi e fango, incapaci di difendersi.
La verità emerse solo anni dopo, quando faticosamente si riconobbe che la frana poteva essere prevista e, soprattutto, evitata. Eppure, la giustizia italiana stentò a rispondere. Imputati fuggiti, esperti italiani che si rifiutarono di partecipare all’indagine, processi dilatati nel tempo e risarcimenti arrivati solo nel 2000, 37 anni dopo il disastro. Nel frattempo, i superstiti vissero con il doppio trauma della perdita e dell’ingiustizia. Anche in questo contesto, emerge la figura dell’ingegnere Mario Pancini, che cercò disperatamente di risolvere le problematiche tecniche, ma si tolse la vita il giorno prima del processo, sopraffatto dal peso della tragedia.
Un crimine che continua a vivere nella memoria
Questa non fu solo una catastrofe naturale, ma un vero e proprio «eccidio premeditato», come recita una tomba nel cimitero di Longarone. La tragedia del Vajont è il risultato della combinazione letale tra arroganza tecnologica e disprezzo per la vita umana. Le autorità e le aziende coinvolte non si preoccuparono delle conseguenze del loro operato, fino a quando fu troppo tardi.
E mentre ancora oggi si parla di fatalità, ci sono troppe analogie con disastri successivi: dalle alluvioni di Firenze nel 1966 fino alla recente tragedia in Romagna, dove le alluvioni del maggio 2023 hanno causato 20 morti. Sono tutte «tragedie-fotocopia», come le definiscono Paolo Di Stefano e Riccardo Iacona nel loro libro Mai più Vajont. Il Vajont è la storia di una tragedia annunciata, un monito ignorato per decenni.
E i risarcimenti? Una beffa. Lo Stato e aziende come Enel e Montedison pagarono solo alla fine del secolo scorso. Ma la somma di 77 miliardi di lire sembra quasi uno schiaffo di fronte alle vite distrutte, alle famiglie cancellate e all’ingiustizia subita dai sopravvissuti. Ancora più scandaloso fu il “codicillo della commorienza”, usato per negare i risarcimenti ai parenti di circa 600 vittime, una legge scoperta dall’ex presidente del Consiglio Giovanni Leone, che divenne poi avvocato della Sade-Enel nel processo.
Il Vajont non è solo un capitolo della storia italiana. È un simbolo della presunzione umana di poter controllare la natura, della manipolazione dell’opinione pubblica, e di una giustizia che arriva troppo tardi e mai del tutto. Un eccidio premeditato, travestito da fatalità.