Parolacce, che sollievo! I benefici inaspettati sulla salute e brevi storie curiose

Smartopic Smartopic - Redazione
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Le parolacce e le imprecazioni potrebbero non essere solo espressioni di frustrazione, ma anche un mezzo per alleviare il dolore fisico. Secondo uno studio condotto dall’Università di Keele, nel Regno Unito, pronunciare volgarità ha dimostrato di avere un effetto analgesico significativo.

Richard Stephens e il suo team hanno coinvolto 64 studenti, chiedendo loro di immergere una mano in acqua gelida e di mantenerla immersa il più a lungo possibile, pronunciando durante l’esperimento una parolaccia a loro scelta. Successivamente, hanno ripetuto l’esperimento chiedendo ai partecipanti di descrivere un tavolo utilizzando solo termini “educati”. I risultati hanno mostrato che gli insulti e le volgarità hanno permesso ai partecipanti di sopportare il freddo più a lungo rispetto alle descrizioni neutre.

Questo suggerisce un legame diretto tra la reazione al dolore fisico e l’uso di parolacce, sebbene i meccanismi precisi non siano ancora del tutto compresi dai ricercatori.

Secondo Stephens, l’effetto analgesico delle parolacce potrebbe derivare dall’aumento dei livelli di aggressività scatenati dalle imprecazioni. L’ira stimola la produzione di adrenalina, aumenta la frequenza cardiaca e innalza la soglia di sopportazione del dolore. Pertanto, lasciarsi andare a espressioni colorite sembra essere una risposta non solo emotiva ma anche fisica del nostro organismo di fronte al dolore.

L’effetto delle parolacce: una ricerca neuroscientifica

Le ricerche indicano che l’attività cerebrale associata alle parolacce potrebbe essere localizzata in regioni diverse rispetto ad altre parti coinvolte nel linguaggio standard. In particolare, sembra che le parolacce attivino parti del sistema limbico, un insieme di strutture profonde del cervello coinvolte nella memoria e nell’elaborazione delle emozioni. Queste strutture sono spesso meno suscettibili all’inibizione, il che spiegherebbe perché persino individui con danni cerebrali che compromettono altre forme di linguaggio riescono a pronunciare imprecazioni.

Gli esperimenti condotti in laboratorio suggeriscono anche che le parolacce possono avere effetti cognitivi distinti. Ad esempio, le parole volgari possono attirare maggiormente l’attenzione e essere ricordate più facilmente rispetto ad altri vocaboli. Tuttavia, c’è anche evidenza che l’uso di parolacce può interferire con l’elaborazione cognitiva di altre parole e stimoli, a volte ostacolando il processo di pensiero.

In sintesi, mentre le parolacce possono rappresentare un modo immediato per esprimere emozioni intense e trovare sollievo emotivo, il loro impatto sul cervello e sulla cognizione suggerisce una complessità che merita ulteriori studi e riflessioni sulla loro natura e utilizzo.

Breve Storia delle parolacce

Per Sigmund Freud,
il fondatore della psicanalisi, l’uso delle parole ingiuriose rappresenta un momento cruciale nella storia umana. Egli sosteneva che il primo individuo a lanciare un’ingiuria anziché una freccia segnò l’inizio della civiltà. Questa prospettiva suggerisce che l’uso delle parole per risolvere conflitti abbia segnato un passaggio importante verso forme più pacifiche di interazione sociale.

Secondo l’etologo Irenäus Eibl-Eibesfeldt, questa idea va oltre: gli insulti non solo hanno contribuito a evitare conflitti fisici, ma hanno anche giocato un ruolo cruciale nello sviluppo del linguaggio stesso. L’ipotesi di Eibl-Eibesfeldt suggerisce che gli insulti abbiano fornito una modalità evolutiva per esprimere aggressività e risolvere dispute senza ricorrere alla violenza fisica, facilitando così lo sviluppo di forme più complesse di comunicazione verbale.

Le parolacce hanno una lunga storia che risale ai tempi antichi, come evidenziato da documentazioni scritte risalenti a millenni fa. Un esempio notevole si trova nella saga di Gilgamesh, il più antico poema conosciuto della storia, risalente al 2000 a.C., dove il personaggio di Shamhat viene descritto utilizzando un termine che può essere interpretato come un insulto.

Anche nella Bibbia,
le parolacce hanno un posto, come dimostrato nel libro di Ezechiele (16, 30), dove il profeta condanna l’infedeltà di Gerusalemme usando un termine considerato volgare, “sgualdrina”.

Questi esempi evidenziano come l’uso di espressioni volgari e insultanti sia stato presente nelle scritture antiche, riflettendo la complessità delle interazioni umane e delle dinamiche sociali attraverso i secoli.

Le bestemmie egizie
risalgono al III-II millennio a.C., rappresentando le prime testimonianze di imprecazioni documentate nella storia antica. Secondo alcune interpretazioni di geroglifici e papiri, gli antichi egizi utilizzavano espressioni blasfeme per riferirsi alle loro divinità. Nefti, la dea dell’oltretomba, veniva definita come una “femmina senza vulva”, il dio Thot era descritto come un essere “privo di madre”, e Ra, il dio Sole, come “con la cappella vuota”.

Nell’antico Egitto, l’uso di espressioni considerate sacrileghe era parte della loro cultura e delle loro credenze religiose, riflettendo un modo di esprimere disprezzo o frustrazione anche verso le divinità. Queste bestemmie ci offrono un’interessante finestra sulla mentalità e sulla vita quotidiana degli egizi antichi, mostrando come anche nella spiritualità e nella venerazione divina potessero emergere espressioni intense e emotive.

Gli antichi Greci
avevano una varietà di espressioni volgari e bestemmie che utilizzavano nelle loro conversazioni quotidiane. Tra le più comuni c’erano invocazioni come “per il cavolo” (mé tén krambén), “per l’aglio”, “per il cane” e “per la capra”. Queste espressioni erano usate per esprimere stupore, frustrazione o semplicemente per aggiungere enfasi al discorso.

Una delle prime tracce di una barzelletta con parolaccia nella storia greca si trova nel Philogelos, un’antologia di barzellette greche risalente al IV secolo d.C. In una delle barzellette, un abitante di Abdera osserva un eunuco e gli chiede quanti figli ha. L’eunuco risponde che non può avere figli perché non ha le palle. In risposta, l’abitante di Abdera chiede sarcasticamente: “E allora quando hai intenzione di prenderti le palle?”.

Questa barzelletta non solo riflette l’umorismo e la schiettezza greca antica, ma anche l’uso delle parolacce come elemento comico. Dimostra come le espressioni volgari e le bestemmie fossero parte integrante della cultura linguistica e sociale degli antichi Greci, utilizzate sia per esprimere emozioni che per divertire.

Gli uomini del passato
simili a quelli di oggi, spesso utilizzavano le parolacce e le offese per esprimere rabbia, odio, indignazione o frustrazione, e talvolta anche per provocare una reazione fisica dal loro avversario. Tuttavia, c’era anche un aspetto più sottile e complesso dietro l’uso delle parolacce, come compreso bene dal commediografo Aristofane, rinomato per il suo genio nel turpiloquio e nell’inventare insulti capaci di suscitare grande ilarità.

Aristofane non era l’unico ad essere abile in questo tipo di linguaggio. Anche i poeti latini come Marziale avevano una capacità simile. Marziale, ad esempio, scriveva versi che, sebbene volgari, erano mirati a divertire e intrattenere il pubblico. Come egli stesso affermava, le sue poesie dovevano essere un po’ sfacciate per poter piacere: “Questa è la legge del poeta smaliziato: non può piacere se non è un po’ sboccato“.

Questo approccio alla parolaccia e al linguaggio volgare nella poesia antica rifletteva una comprensione profonda del potere delle parole nel suscitare risate, provocare reazioni emotive e trasmettere una vivace forma di espressione umana.

Le prime parolacce scritte sui muri
ci offrono un’interessante finestra sul linguaggio volgare dell’antichità. Un esame attento di un vocabolario latino rivela che gli antichi Romani non erano certo timidi nell’uso del turpiloquio. Termini come stercus (merda), mentula (membro maschile), futuere (fottere), meretrix (prostituta) e scortum (sgualdrina) erano ampiamente in uso, come dimostrano i graffiti scurrili ritrovati sui muri di Pompei.

Un esempio noto è il graffito: “APOLLINARIS, MEDICUS TITI IMPERATORIS HIC CACAVIT BENE”, che tradotto significa “Apollinare, medico dell’imperatore Tiberio, qui ha cacato bene“. Questo graffiti non solo dimostra l’uso delle parolacce in un contesto quotidiano, ma anche l’umorismo e la franchezza con cui gli antichi Romani trattavano anche argomenti scatologici.

Durante il periodo medievale, il linguaggio volgare trasse ispirazione anche dal mondo animale. Termini come bestia, cagna, bacalare (baccalà), iumenta (vacca), porco e scorfano erano frequentemente utilizzati come insulti o per denigrare qualcuno. Questo tipo di linguaggio rifletteva le credenze e le percezioni medievali nei confronti degli animali, spesso usati per descrivere comportamenti o caratteristiche considerate negativamente.

In sintesi, sia nell’antica Roma che nel medioevo, le parolacce scritte sui muri rappresentano non solo un aspetto del linguaggio quotidiano, ma anche un modo per esprimere emozioni, derisione e umorismo attraverso un linguaggio diretto e spesso provocatorio.

Nel Medioevo,
l’uso dei termini sprezzanti rifletteva non solo pregiudizi regionali e sociali, ma anche una visione elitaria e discriminatoria verso gruppi considerati inferiori o diversi. Un esempio emblematico è il termine “villano”, usato per indicare gli abitanti delle campagne, che era considerato offensivo dai medievali, analogamente al dispregiativo romano “sannita” per gli italici che avevano resistito all’espansione di Roma.

I fondatori di Roma etichettavano gli italici come “montanari”, “rozzi” e “briganti”, evidenziando così un bias culturale e sociale verso coloro che non appartenevano all’élite romana. Non solo la provenienza geografica, ma anche le professioni e le abitudini alimentari portavano a termini dispregiativi: nel Trecento, i siciliani venivano chiamati “mangiamaccarruna”, mentre i napoletani erano noti come “mangiafoglia” per il consumo di cavolo.

Nello stesso periodo, durante le dispute e gli scontri politici, era comune disqualificare un avversario usando epiteti come “votacessi” o “scardatore di castagne di villa”, mettendo in evidenza la natura derisoria e spesso anche crudelmente umoristica di come il linguaggio veniva utilizzato per denigrare e ridicolizzare l’altro. Questi esempi mostrano come il linguaggio, nel contesto storico, fosse strumento non solo di comunicazione, ma anche di costruzione e perpetuazione delle gerarchie sociali e culturali dell’epoca.

“Fili de pute”

La più antica parolaccia in lingua italiana volgare, “Fili de pute”, risale alla fine del XI secolo ed è stata trovata su un affresco nella basilica di San Clemente in Laterano. Questo termine, nella sua evidente traduzione, dimostra che già nel Medioevo le parolacce e le offese che coinvolgono la famiglia erano diffuse.

Altri esempi di epiteti insultanti includono “figlio di uno traditore”, “figlio di prete” e il particolarmente sprezzante “figlio di prevetessa”, che indicava il figlio dell’amante di un prete. Questi insulti non solo rivelano la volgarità della lingua usata, ma anche la persistenza nel tempo della tendenza umana a utilizzare il linguaggio per offendere e umiliare, sfruttando anche legami familiari o sociali per aumentare l’offesa.

Francesco d’Assisi

Il fatto che anche un santo come Francesco d’Assisi abbia utilizzato qualche parolaccia potrebbe sorprendere molti, ma riflette anche la sua umanità e il modo diretto di comunicare con le persone. Ne “I fioretti”, si narra di un episodio in cui Francesco consigliò a padre Ruffino di rispondere alle tentazioni del diavolo con un linguaggio volgare: “Apri la bocca; mo’ vi ti caco”. Questa espressione, benché insolita per un santo, mostra la sua volontà di usare un linguaggio semplice e diretto per comunicare concetti spirituali al popolo.

Questo uso delle parolacce da parte di Francesco potrebbe essere stato inteso come un modo efficace per contrastare l’influenza malefica del diavolo, usando un linguaggio terreno e comprensibile a tutti. Non è infrequente neanche oggi che alcuni politici e figure pubbliche adottino un linguaggio simile per comunicare con franchezza e immediatezza.

In definitiva, questo episodio dimostra che il linguaggio, anche quando non convenzionale o “sacro”, può essere utilizzato con intenti educativi e per mettersi in contatto con le persone nel modo più efficace possibile.

Nel contesto politico dei comuni medievali divisi in fazioni,
gli insulti erano moneta corrente e rappresentavano una forma diretta di espressione delle rivalità e delle animosità tra le parti. Mentre oggi ci si può scandalizzare per gli insulti politici moderni, la storia dimostra che queste pratiche non sono affatto nuove.

Nel Medioevo, gli appartenenti alle fazioni guelfa e ghibellina erano soggetti a vari tipi di offese: un guelfo poteva essere definito “mal ghibellino cacato”, mentre un ghibellino poteva essere chiamato “sozzo guelfo traditore”. Gli insulti potevano anche essere geografici o riferiti a specifiche caratteristiche locali, come “sozzi marchisani” o “sozza romagnola”.

Queste parole venivano utilizzate non solo per sfogare rabbia e odio, ma anche per provocare una reazione emotiva o fisica nell’avversario. Gli antropologi sostengono che l’uso delle parolacce può avere anche una funzione psicologica di sfogo delle frustrazioni e delle tensioni accumulate durante i conflitti politici e sociali.

La prima parolaccia ufficiale di un presidente della Repubblica italiana

risale al 1992, quando Francesco Cossiga fece un’uscita un po’ più colorita del solito durante un discorso presso la base militare di Ronchi dei Legionari (Gorizia). Nelle sue famose esternazioni, Cossiga disse: «E voi volete che gli appartenenti alle forze dell’ordine non si incazzino se vedono che tutto l’impegno del governo è per l’obiezione di coscienza? Mi sarei incazzato anch’io, come mi sto incazzando».

Questa dichiarazione, in cui Cossiga usò il termine “incazzare” in un contesto ufficiale e pubblico, fece scalpore all’epoca, mostrando un lato più schietto e diretto del presidente nella sua comunicazione politica.

Durante la storica missione Apollo 10 nel 1969,
l’astronauta Gene Cernan, in diretta televisiva, si lasciò sfuggire una parolaccia documentata nello spazio. Mentre il modulo lunare stava affrontando problemi di rotazione, Cernan esclamò: “Figlio di puttana, che diavolo è successo!”

Gene Cernan è stato uno dei pochi astronauti ad aver viaggiato due volte dalla Terra alla Luna, insieme a Jim Lovell e John Young. È stato l’ultimo uomo a camminare sulla Luna durante la missione Apollo 17, ed è l’unico ad aver effettuato due volte la discesa sulla Luna a bordo di un modulo lunare, partecipando sia alla missione Apollo 10 che alla missione Apollo 17.

Questa esclamazione di Cernan durante un momento di tensione nella missione Apollo 10 è rimasta celebre nella storia delle esplorazioni spaziali come uno dei rari casi in cui una parolaccia è stata pronunciata nello spazio e trasmessa in diretta televisiva.

Le parolacce hanno avuto un ruolo significativo nel cinema, sia nella loro evoluzione nel tempo che nel loro impatto culturale. Ecco alcuni esempi emblematici:

Nel film “Via col vento” del 1939, si registra una delle prime parolacce autorizzate nella storia del cinema: “Non me ne frega un accidente!”. Questa espressione, per gli standard dell’epoca, rappresentava un raro caso di linguaggio forte su schermo.

Un altro film celebre per l’uso delle parolacce è “Il buono, il brutto, il cattivo” del 1966, diretto da Sergio Leone. Il film culmina con una parolaccia che sottolinea l’atmosfera cruda e brutale del western spaghetti.

Tra i film più recenti con un numero elevato di parolacce, spicca “The Wolf of Wall Street” del 2013, diretto da Martin Scorsese. Questo film, basato sulla vera storia di Jordan Belfort, vede l’uso frequente della parola “fuck“, la parolaccia più comune in inglese, che viene ripetuta ben 569 volte durante i suoi 180 minuti di durata. In totale, il film conta 687 parolacce, riflettendo il tono e il linguaggio crudo dei protagonisti e dell’ambiente finanziario descritto.

Questi esempi dimostrano come le parolacce siano diventate un elemento significativo nella rappresentazione della realtà e dell’emozione nei film, riflettendo cambiamenti culturali e sociali nel corso del tempo.

Wowbagger, un personaggio della serie “Guida galattica per autostoppisti”
di Douglas Adams, è noto per il suo insolito hobby di insultare ogni singolo essere vivente nell’universo. La sua costante ricerca di nuove persone da insultare lo rende unico nel suo genere.

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